"La vita ha il significato che ha sempre avuto. È la stessa di prima.Che cosa è la morte se non un incidente insignificante?

Dovrei essere dimenticato solo perché non mi si vede? 
Sto solo aspettandoti, è un intervallo di tempo (...) Va tutto bene.
( Pastore Henry Scott Holland 1910)

Oggi, c'è stato il funerale di una persona a cui ho voluto e voglio ancora bene.
Non la conoscevo benissimo, ma è stata carina e dolce con me in un periodo nel quale io non stavo bene con me stessa e con gli altri. 
E così, mi ci sono affezionata. 
Pensate che anche se sapeva il mio nome, ogni tanto quando ci incrociavamo in qualche corridoio, mi chiamava "Chicca". Chicca perché i nani, che popolano la mia vita e il mio cuore, le avevano detto di chiamarmi così. E vi giuro che sono poche le persone (e solitamente sono quelle alle quali tengo di più) quelle che mi chiamano con quel vezzeggiativo che S mi attribuì molti anni fa. 
Se ne è andata che era giovane, bella e innamorata. Certe malattie sono così, non ti guardano in faccia, non ti chiedono il permesso e se ne infischiano dei tuoi sogni e della tua vita. Semplicemente capitano, ti cambiano e ti possono uccidere. 
Come hanno fatto con lei e con altri come lei. 
Nessuna giustizia, solo un gioco di probabilità. Un insieme di predisposizioni genetiche, mutazioni biologiche, condizioni ambientali, stili di vita e abitudini alimentari e tanti altri fattori. Nessuna patologia da quella più banale a quella più mortale, agisce secondo giustizia. Eppure, ciò che è successo a lei è una grande ingiustizia, una di quelle che spezza il cuore e ti fa tenere il fiato corto. 
Oggi c'è stato il funerale, c'è andato solo mio padre, io non me la sono sentita. Comunque sia, il posto dove si è tenuta la funzione era praticamente attaccato a casa mia. Erano più di 300 persone. Si, le belle persone riescono ad entrare nel cuore di così tanta gente. Le macchine parcheggiate ovunque, tutti pronti a ricordarla e salutarla per un ultima volta. Tutti a pezzi, perché non è colpa di nessuno, ma questa è una ingiustizia e le ingiustizie fanno male un po a tutti. 
Sono successe molte cose toccanti che mio padre mi ha raccontato, troppo intime per essere narrate qui. Troppo sue e quindi non ve le dirò, perché è giusto che lei, che ora non ha più niente, le rimanga qualcosa. Non mi va di strumentalizzare il suo dolore, di rendere pubblica la sua intimità. Ciò che riguarda lei, deve rimanere suo. 
Però, tutta questa terribile faccenda mi ha fatto riflettere. Riflettere sulla vita, sulla morte e come quella che diventerà la mia futura professione sia collegata ad esse in una maniera devastante. 
Virginia Henderson, grande teorica dell' infermieristica nel 1955, scrisse che l'assistenza infermieristica consiste nella "assistere l'individuo sano o malato nell'esecuzione di quelle attività che contribuiscono alla salute o al suo ristabilimento o ad una morte serena..". 
Ed è sull'ultima parte, sull'accompagnare ad una "morte serena", che vorrei riflettere con voi. 
Cosa significa per voi "una morte serena"? In che modo per voi si può avere ciò? 
La morte fa paura, è la cessazione di tutto. Vuol dire non esserci più, essere nulla. 
Nell'antichità c'era l' horror vacui, la paura del vuoto, così si riempiva la tela di mille colori e rifiniture pur di non permettere al vuoto di esserci. 
Ma la morte porta al vuoto, allo svuotamento di se stessi. 
Si cessa di essere. 
Si cessa di essere donne, di essere mogli, di essere sorelle, di essere mariti, di essere figli, di essere padri, di essere persone, di essere amati, di essere carne e sangue, di essere parte della vita di qualcuno e della proprio. 
Vuoto. 
Fa paura non è vero? Vengono quasi i brividi e la nausea al solo pensarci. 
Le persone che si dovrebbero accompagnare a quella "morte serena" citata sopra, sono persone (molto spesso) conscie della loro situazione patologica. 
La morte se la sentono addosso. 
Anche quelle persone che sono tenute all'oscuro della loro patologia, quando essa diventa la futura causa della loro morte, iniziano a capire che c'è qualcosa che non va e che rischiano di morire. 
In reparto, spesso, ci troviamo davanti a dei condannati a morte coscienti della loro condanna. 
E non possiamo farci nulla.
Non possiamo salvarli anche se vorremmo con tutte le nostre forze. Anche se ci sono medici che restano svegli nottate intere ad aggiornarsi e a sentire colleghi per cercare di scovare fra le mille novità scientifiche quella in grado di risolvere quel particolare tipo di problema. Anche se ci sono infermieri che passano nottate a somministrare antidolorifici al bisogno e a cercare nuove tecniche per fare diminuire il dolore e rendere più facile alcuni gesti della vita quotidiana. Anche quando si lotta con altri infermieri di altri reparti per far anticipare un esame diagnostico o dare la priorità al proprio paziente per una struttura più attrezzata e che si addica di più alla sua attuale situzione di salute.
Niente, siamo umani: medici, infermieri e oss, tutti essere umani non in grado di fare quel miracolo necessario a salvare un paziente affetto da una patologia che lo porterà alla morte. 
E la morte non è programmata, nessun medico o infermiere al mondo sarà mai in grado di dire con precisione "lei morirà tal giorno alla tal ora.". I medici danno dei lassi di tempo, variabili e non esatti al 100%. Questo vuol dire che il paziente la morte se la porta ancora più dietro, ancora più dentro. Ogni giorno potrebbe essere l'ultimo. Oggi ci sono, ma domani? 
Questo fa perdere il senso della vita a molte persone. 
Alcuni pazienti si iniziano a chiedere "Che scopo ha tutto questo? Che scopo ho io?". 
Si demoralizzano, si deprimono, mollano la vita ancora prima che essa abbia abbandonato il loro corpo. È un escalation di effetti e azioni che portano la persona a diventare dipendente. Smettono di alimentarsi da soli anche se ne sono in grado, smettono di prendersi cura della propria igiene da soli anche se potrebbero e così via. 
L'indipendenza fa parte della vita di una persona, è la propria conquista. È la meta cui si tende da quando si nasce
È grave quando si smette di lottare per essa
Quando una persona smette di combattere per la propria indipendenza, allora, la situazione è realmente critica. Non si sta andando in contro a una "morte serena". 
Anzi, si è davanti a una persona che si è arresa, che si è svuotata , che si sta dando in pasto al vuoto da sola, prima che sia il tempo a farlo.
È straziante e fa male. 
E allora deve essere l'infermiere a prendere per mano e ad aiutare l'assistito. Smuoverlo un poco alla volta, con pazienza, delicatezza e amore. Ristabilire le priorità, e la priorità è che non è finita fin che non è finita. Aiutare la persona a dare un senso a quello che sta succedendo. Aiutare l'assistito a fare pace con il suo corpo traditore e con se stesso, perché noi abitiamo il nostro corpo ma siamo anche esso. Aiutarlo ad accettare la sua condizione. 
E, soprattutto, aiutarlo a capire che la sua condizione non cancella quello che è stato, che è e che finché è in vita potrebbe essere. 
Si incita la persona non a combattere per la salvezza. Un malato terminale non può salvarsi, sarebbe perfido e maligno, farli credere che possa migliorare le proprie condizioni biologiche fino a giungere a una guarigione che lo allontani dalla imminente dipartita. 
È un nuovo tipo di lotta: non si combatte più la morte, la si affronta. La si guarda in faccia, ci si prepara ad affrontarla. Le si da il giusto peso, dando sempre la priorità alla vita. 
Si aiuta la persona a mantenere la propria indipendenza il più possibile e per quanto le condizioni lo permettano. Il massimo che riesce a fare è portarsi alla bocca solo un cucchiaioni di pastina? Va bene, allora deve portarselo alla bocca lui quel cucchiaino, lo deve fare per se stesso, per il resto sarà aiutato. Ma così la persona saprà che l'aiuto che riceverà e che riceve gli è dato nel rispetto della sua vita e del suo esserci. 
Accompagnare a "una morte serena" vuol dire prendere in considerazione tutti i bisogni della persona e aiutarla secondo le nostre competenze e possibilità (per quanto riguardo ciò che esula dalle mere tecniche infermieristiche). Vuol dire essere la sua mano quando lui vuole scrivere ma non riesce e non c'è nessun familiare che possa aiutarlo. Significa ascoltare le sue paure e combattere assieme quelle che si possono superare. Vuol dire aiutare le persone che ama e che lo amano a stargli accanto, ad aver la forza necessaria per affrontare quello che verrà, vuol dire ascoltare anche le loro paure. 
Non ci si prende cura solo del malato, ma della persona che è e dei suoi affetti. 
Si accetta che per ognuno andare incontro a "una morte serena" significhi qualcosa di diverso e di personale. Anche la morte, così come la vita è qualcosa di intimo e soggettivissimo. 
Un bravo infermiere (e di questo ne sono  pienamente convinta perché l'ho visto con i miei occhi) è quello che sa quando parlare e quando tacere, e in certi casi l'assenza delle parole dice molto più delle parole stesse. A volte basta un gesto per far diminuire l'intensità della paura e far giungere la persona a una "morte serena". Come quando mentre aspetti che arrivino i  parenti chiamati per dare un ultimo saluto considerata la criticità delle condizioni del assistito, la persona ormai senza più forze per parlare e dilaniata dalla paura e dalla perdita e molto spesso dal dolore, ti stringe la mano e tu stringi la sua. Non lo lasci solo e alcune volte capita che mentre stringi quella mano, la persona smetta di essere, muoia. 
Ci sono dei master per infermieri che si occupano dell'assistenza alle persone al termine della loro vita. Non è facile affrontare tutto ciò, ancora più difficile è aiutare qualcuno che sta vivendo la fine della propria vita. E ancora più difficile è affrontare i minuti dopo, quando ci si ritrova davanti i parenti e gli affetti della persona. Aiutarli a sopportare il dolore, quello che si porteranno a casa, quello che gli accompagnerà per chi sa quanto tempo. 
Aiutarli anche stando in silenzio, ascoltandoli, toccandoli. 
Cosa si può dire d'altronde a una persona che ha appena perso l'amore della propria vita? O cosa si può dire a una madre o a un padre che hanno appena perso il figlio o la figlia? 
Gli si può solo stare vicini. Rispondere alle loro domande per quello che riguarda le proprie competenze. La persona ricoverata, il nostro paziente, ha la precedenza, ma una volta che lui non c'è più l'infermiere deve accompagnare chi lo ha amato ad accettare "serenamente" (per quanto è possibile) la morte della persona amata. 
Si, la vita e la morte sono collegate e indivisibili, entrambe estremamente complesse. 
Ma c'è sempre una fortuna nella sfortuna,  la morte (così come la vita) la si può affrontare con le persone che amiamo e con quelle che mettono tutte loro stesse nell'assisterci e aiutarci in quei momenti, la fortuna è non essere dimenticati e amati sia prima che dopo la fine.

You Might Also Like

4 commenti

  1. Bel post, molto toccante.
    Io credo, nella mia personale visione delle cose, che - escludendo il dolore ché quello non ti aiuta a lasciarti davvero andare - una morte serena è una morte accettata, per quanto si possa. Una morte che porta con sé le gioie di quello che si è fatto in vita, l'amore di chi si ha attorno, la convinzione che se anche c'è ancora tanto da fare e vedere, per noi finisce qui. E va bene così.
    Alcuni ci riescono. Altri no. Fa parte del gioco.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io Mareva ti adoro, hai detto delle cose bellissime...Come persona la vedo esattamente come te...Grazie mille per questo bel commento! Un bacio <3

      Elimina
  2. "Le si dona il giusto peso, dando sempre la priorità alla vita".
    E' una frase bellissima, e giusta. La morte è un vuoto che fa immensamente paura, ma qualcosa rimane. L'affetto, il calore del cuore, e questo tuo post ne è la testimonianza.
    Sarai una bravissima infermiera Fede, probabilmente porterai con te i pazienti fin troppo, e con loro il dolore, ma saranno fortunati ad averti. Un bacio!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie mille Aly, le tue parole sono state davvero belle! Un bacione

      Elimina