"Dico grazie del dono è come non fosse un lavoro..."

(cit "In Radio" - Marracash)

È notte, quasi mattina, e a quest'ora esattamente un anno fa ero una persona veramente felice. E la cosa migliore è che mentre ero felice mi ero accorta di esserlo. Ero lì che nella mia testa fra un "perché no, proviamo!" e un altro mi ero accorta di esistere e di essere esattamente nel posto in cui volevo essere. Eccomi qui ora, piove come allora, sono in un letto come allora e se mi chiedi se sono felice, la risposta sarebbe un altra domanda: so essere felice? E potrei stare qui a parlarvi di tutto ciò che non va, di questa mia vita che forse non vivo da 20enne e dei grandi mostri che vivono nella mia mente. Oppure potrei parlarvi di quella notte, e di come alla domanda "sai essere felice?" risponderei che non lo so davvero, ma che la felicità l'ho provata una sera inaspettata. E poi l'ho riprovata altre volte e quindi si, so come si può essere felici. Tutta questione di fortuna, e di attimi!
Ma stasera ho bisogno di parlare di cose belle, di qualcosa che la felicità bene o male me la fa provare sempre. Mi sono innamorata dei libri per far innamorare di me mio padre, perché era nella mia genetica. Perché quando ho sfogliato per la prima volta un libro mi sono sentita felice, altrove, in un altra vita.
E vi giuro che il progetto sembrava chiaro e ben delineato davanti a me: avrei studiato lettere e sarei diventata una giornalista. Avrei scritto e scritto, e letto e ancora scritto.
Poi non lo so cosa è successo, o forse lo so. Forse è colpa di una diagnosi spaventosa, di nomoni gravosi, di pomeriggi passati in ospedale, di una nottata simile a questa quando mi ritrovai gli operatori del 118 a casa a portarsi via metà della mia famiglia con mio padre e mia madre che mi dicevano di non avere paura, che non stava succedendo nulla, che tornavano. E io paura ne avevo molta, e un poco invidiavo quelli estranei che erano entrati in casa mia, che paura non ne avevano, che dicevano senza timore quelle parolone dal suono quasi mostruoso. Così mi sono ritrovata a 18anni a non iscrivermi a lettere, ma a infermieristica. Perché non volevo avere più paura, perché volevo aiutare, perché faceva andare di matto mio padre. Mio padre che mi diceva di riflettere. << ma davvero vuoi stare a contatto con la sofferenza tutti i giorni? E le notti? Stai scegliendo un lavoro che ti terrà festivi e notti a lavorare come farai quando avrai una famiglia?>>. E più diceva così, e più mi convincevo che era quello che volevo fare. Volevo un lavoro importante, che smettesse di farmi sentire impotente, che mi impedisse di avere una famiglia nella norma, che mi tenesse lontano di casa. In verità ero partita con l'idea di fare il medico, poi a medicina non sono entrata e devo dire non con poca delusione ma anche sollievo. Che forse una parte di me sapeva benissimo che non era quello che volevo fare, che avrei saputo fare bene. Ma a infermieristica ero riuscita ad entrare e allora, proprio come mi ridissi dentro di me un anno fa in una notte come questa, mi dissi "perché no!?! Proviamo!".
Il mio amore per l'infermieristica è stato un amore casuale, iniziato piano e cresciuto sempre più. E si, è un lavoro che mi ha sconvolto la vita, esattamente come fa ogni grande amore. Il primo anno non ne ero neanche tanto entusiasta. Tanti libri, troppe regole, poche materie che amassi veramente. Il panico all'esame di anatomia, l'odio per biochimica, il disagio all'idea di dover toccare altri corpi nudi di sconosciuti. Però c'era un concetto che mi rimbombava nella testa "l'infermiere non cura, si prende cura!". E a me piaceva tanto prendermi cura delle persone. Era la cosa che mi veniva meglio, prendermi cura del prossimo: di mia madre, di mio padre, delle mie amiche, di chi c'era. Vorrei dire che la prima volta che ho messo indosso la divisa mi sia sentita emozionata, con le farfalle nello stomaco. O che la prima volta che ho messo piede in reparto ero così felice da sentirmi al settimo cielo. In verità le cose sono andate in maniera molto diversa. Primo tirocinio in una medicina interna che sembrava più una geriatria e indosso avevo una divisa che mi faceva sentire impacciata e a disagio. Ho passato i primi due tirocini del primo anno con il patema addosso, e con crisi di pianto e panico ogni volta che capitavo in turno con qualche infermiere che ancora di più mi faceva sentire inadeguata. Avevo il terrore di fare male ai pazienti, di toccarli, di non essere utile o di aiuto. Ma ci sono stati anche dei bei momenti, il primo prelievo del sangue riuscito, la prima volta che un paziente ti dice "grazie", le volte che le persone ti stringono la mano ed è come se ti donassero un poco della loro vita. Però ciò non bastava per me, mi faceva anche un bel po' di paura. Così alla fine del primo anno, decisi che forse era meglio tornare al piano originale, fare lettere o qualcosa di simile e diventare un abile giornalista. E così seguii per due mesi le lezioni di scienze della comunicazione a indirizzo storico letterario artistico a Ferrara. Giuro che seguivo quelle lezioni con immensa gioia ed entusiasmo. Avevo trovato un posto dove mi sentivo a mio agio, dove ero brava, dove non facevo fatica. Così brava che il professore di storia contemporanea mi aveva perfino notato e fatto dei sentiti complimenti per i miei interventi. Ed era tutto bellissimo, ma non mi rendeva felice. Era come se mancasse qualcosa, come se mancasse della magia, come se mancasse una parte di me. Ascoltavo parlare di Enea, di Ulisse, di tutti i miti che avevo amato e una parte di me si chiedeva che ne era dei miei pazienti, come era possibile lavorare non in ospedale, come era possibile lasciare che le mie paure mi tenessero lontano da ciò che realmente mi aveva fatto sentire felice anche se poco. Così smisi di andare a Ferrara e ritornai a seguire le mie lezioni di infermieristica, ringraziando mia madre ad avermi persuasa a non cancellare la mia iscrizione e a rinunciare al mio posto. Ed eccomi li, di nuovo con la mia divisa addosso e tante domande e paure, ma felice. Perché quando indosso la mia divisa e sono in reparto, io sento di essere esattamente nel posto in cui dovrei essere. È questa la vera magia, poter fare qualcosa che si ama veramente, che anche nelle giornate peggiori non ti fa sentire persa. Perché infermieristica per me è più di una professione, è ciò che sono. So fare bene solo questo, mi rende felice solo questo, il prendermi cura di qualcuno. L'esserci e il sapere cosa fare. E mi sento un poco come Degas che diceva che quando dipingeva era come se spiasse dal buco della serratura la realtà che andava a mettere su tela. Io con il mio lavoro guardo le persone. Guardo i loro corpi, cosa va e cosa non va, guardo le loro vite, le loro storie, le loro paure e le loro gioie. È questo essere costantemente a contatto con il prossimo quello che più adoro del mio lavoro. E ho visto cose spettacolari, ho visto in sala operatoria come siamo fatti dentro. E siamo dal punto di vista biologico, anatomico e fisiologico una meraviglia. Funzioniamo secondo una logica schiacciante, e siamo pieni di colori, di sfumature. Come il rosso del sangue che varia tonalità se arterioso, venoso o capillare, se ben ossigenato o no. Ho visto come sono fatte le ossa, e come siano ben articolate fra loro, tanto da tenerci tutti assieme. E ho strumentato, e mi sentivo spaventata certo, ma anche felice. Felice di partecipare a un intervento che avrebbe cambiato la vita di quel bambino, che gli avrebbe permesso di correre come tutti gli altri bambini della sua età. E ho preparato e somministrato i farmaci per la sedazione, aiutato l'anestesista, ventilato i pazienti. Ed era tutto meraviglioso, vedere come ogni farmaco venga dato in base a quello che si è, al proprio corpo che è ciò che siamo assieme a quello che sentiamo e proviamo. Ho giocato con i bambini prima della anestesia, risvegliati dopo l'intervento. Parlato con mamme spaventate e papà che si fingevano coraggiosi, e visto con che occhi pieni di tutto guardavano come speciali quei piccolini che di speciale avevano già lo stare al mondo. Ho visto anche le urgenze, gli ubriachi molesti, i tossici in crisi di astinenza, i malati terminali, e i portatori di malattie infettive.
Ho visto come una malattia può farti credere di essere la tua definizione, e di come anche dal dolore si possa ripartire. Ho visto gli addii eterni, e i veri "ti aspetto".
 Ho visto tanto amore e tanta solitudine. Perché nella malattia si è sempre soli, anche quando si è amati, anche quando si è circondati da persone. Ho visto i sorrisi spezzati e i pianti disperati. E famiglie ricongiungersi e altre allontanarsi. Ho imparato la funzione di molti farmaci per saper rispondere alla domanda "che cosa mi stai dando? Perché me lo dai?". E dalla farmacologia mi sono lasciata affascinare, perché è bello sapere cosa stai somministrando e che effetto avrà sul corpo che hai davanti. Perché per prendersi cura di una persona, non serve solo l'amore per il prossimo ma anche lo studio e la preparazione. Prendersi cura di una persona dal punto di vista infermieristico richiede un cervello ben funzionante, una buona conoscenza di ciò che riguarda il corpo umano e quello che gli andremo a dare o fare. Perché essere infermieri è una professione e come tale richiede preparazione e conoscenza e coscienza. Perché con il medico collaboriamo e non siamo sue scimmiette esecutrici non pensanti. Perché un bravo infermiere conosce segni e sintomi delle patologie che si troverà davanti. Perché siamo noi a stare di più a contatto con i paziente, siamo noi che dobbiamo notare prima del medico cosa sta andando bene e cosa sta andando male e poi riferire. L'80% del prendersi cura della persona sta nella prevenzione, evitare che le condizioni peggiorino, evitare il peggio, ascoltare la persona, imparare a conoscerla. È un lavoro che richiede tecnica, ma anche tanta sensibilità ed empatia. E l'empatia va imparata, coltivata e sviluppata. Perché la bravura sta nel prendersi cura del prossimo in quanto se stesso e non come vorresti che gli altri si prendessero cura di te. Ho scelto un lavoro che richiede un alto ideale della dignità umana e del rispetto. Un lavoro dove bisogna sapere quando fermarsi, quando aiutare a far accettare a chi hai davanti che si è fatto il possibile e che ora bisogna preparasi ad affrontare altro da quello che si era sperato. Si, ho scelto un lavoro dove si impara che la morte vale quanto la vita, che ha la stessa dignità, che fa parte essa stessa della vita. Ho scelto un lavoro dove c'è molto dolore, sofferenza e angoscia. E ho imparato a conviverci con tutto ciò, perché so che c'è altro. Che alcuni miei paziente usciranno con le loro gambe da dove sono, che altri riusciranno a rialzarsi anche se ciò che gli è successo gli ha cambiati dentro per sempre, che altri ancora moriranno e quando si accorgeranno che starà per succedere ciò avranno paura ma che se io avrò fatto bene il mio lavoro allora riusciranno ad andarsene senza essersi sentiti denigrati, umiliati, senza dignità. Ecco cosa mi rende felice del mio lavoro, ecco il mio grande amore, il mio è un lavoro rivoluzionario. Rivoluzionario perché è vero non cambio il mondo, non rendo il mondo un posto migliore, ma mi prendo cura delle persone e se sei brava allora la vita di qualcuno in meglio la puoi cambiare e quel qualcuno a sua volta entrerà nella vita di qualcun altro e la renderà straordinaria. E non posso rinunciare a tutto ciò, alla magia di quando sai di aver fatto tutto bene, di aver dato il meglio di te e delle tue conoscenze e di vedere qualcuno che starà meglio anche grazie a te, a quello che hai fatto. L'assistenza è un occasione di incontro, è un evento irripetibile e irreversibile, è un entrare nella vita di chi hai davanti. È una relazione di aiuto, è una presa in carico della persona e di chi se ne prende cura. Ed io amo tutto ciò, tutto ciò mi rende felice sempre!

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14 commenti

  1. Mi hai commossa. E tanto. Da quando mio babbo ha avuto l'ictus a gennaio ho incontrato tantissimi infermieri e infermiere e ancora ne incontro. Anche oggi che passerò la Pasqua in ospedale con lui e con loro. E non posso che dire grazie: per l'infinita pazienza, per le cure, per l'attenzione, per le battute, per gli scherzi, per il coraggio, per quando lo sgridano, per essere una famiglia. Io, senza di voi, non saprei cosa fare.

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    1. Mi dispiace tanto per il tuo papà e per quello che avete dovuto e state passando assieme! Mi fa piacere sapere che hai incontrato infermieri che si stanno prendendo cura di voi al meglio delle loro capacità! Un bacio e un abbraccio forte forte! <3

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  2. Grazie fede, davvero. per aver condiviso tutto questo. per aver saputo dire così bene.
    grazie. mi hai aperto un mondo che non sapevo. me lo porterò dietro da qui in poi....

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  3. Grazie fede, davvero. per aver condiviso tutto questo. per aver saputo dire così bene.
    grazie. mi hai aperto un mondo che non sapevo. me lo porterò dietro da qui in poi....

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    1. uuuh *.* ma così mi fai emozionare *.* <3 grazie a te per aver letto!

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  4. Wow....hai tutta la mia ammirazione e il mio rispetto, chi fa un lavoro come il tuo e per come lo fai dev'essere per forza una persona speciale

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  5. Ciao, Federica!
    Devo diirti un enorme grazie per questo post, al quale mi sento molto, ma molto affine, anche se probabilmente, anzi sicuramente, la mia strada sarà diversa dalla tua perché io, invece, prenderò lettere,a ll'università, e sono arciconvinta di questa scelta. Però io ti ammiro tantissimo, sai? Il tuo è un lavoro difficile, un lavoro che a volte, come tu stessa hai detto, all'inizio ti ha provocato nausea, disagio, senso d'inadeguatezza. Però adesso lo ami, questo lavoro, non potresti fare senza e ci metti un trasporto, una dedizione, un amore che in pochi sanno dedicare ad una professione. Ed è lo stesso amore che vorrei mettere io, nel mio lavvoro, qualunque sarà, perché la Letteratura l'adoro troppo, come tu adori quello che fai, ed è per questo che ti ammiro.
    E non è vero che non rendi il mondo un posto migliore. Con il tuo calore, la tua luce, l'affetto che dedichi ad un paziente altroché se lo migliori, il mondo.
    Un abbraccio, e ripasserò da te, senz'altro
    Minerva

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    1. Sarà banale o scontato ma io credo davvero che quando si sceglie il lavoro da fare nella propria vita conti molto l'amore e la passione...Perchè per far bene qualcosa bisogna crederci e amarla, solo ciò permette di non mollare tutto e continuare a lottare :) Ah la letteratura è sempre la letteratura, se ti fa sognare, se ti fa sentire nel posto giusto al momento giusto allora è sicuramente la tua strada! <3 un bacione e grazie per il tuo bellissimo commento! :) <3

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  6. Complimenti.
    Deve esserci voluta molta forza e determinazione.
    Complimenti davvero e in bocca al lupo per tutto.

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  7. Grazie mille cara :) in bocca al lupo anche a te per tutto! <3

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  8. Ciao, ho letto quello che hai scritto e ti dirò che abbiamo una storia molto simile.
    Anch'io sono una giovane infermiera, è una scelta che ho fatto io anni fa dopo il liceo e appena sono stata catapultata in ospedale col tirocinio più volte mi sono pentita di averla fatta.
    Sai stare a contatto con le persone in difficoltà non è cosa semplice e richiede un gran carico emotivo, io non sono mai stata una ragazza socievole, gentile e disposta verso gli altri, per brutte esperienze passate ovviamente.
    Ma un giorno accadde che la malata ero io..ero io in ospedale e ho incontrato persone come me, che non mi prestavano attenzione, che non cercavano di capirmi e da lì è cambiato tutto.
    Capii come ci si sente a non incontrare persone ben disposte quando sei fragile, e volevo che la mia esperienza non la ripetesse nessuno. Tutto è cambiato.
    E adesso amo il mio lavoro.

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    1. Che esperienza forte e carica di significato...spero che ora tu stia bene e sono felice di sapere che la nostra professione è svolta da molte persone che cercano di farla con amore, di persone che si sforzano di fare il meglio... un bacio e un.abbraccio

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